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2019/01/26

Perché tante parole straniere in Italiano?

Una risposta che merita di essere discussa
da :


..... A illuminarmi è stata una frase dello scrittore inglese Tim Parks, traduttore di vaglia, che in un intervento appunto sui problemi del tradurre (la presentazione dell’annuario di letteratura e editoria Tirature presso il Laboratorio Formentini di Milano) ha dichiarato, di passaggio: l’inglese è una lingua che ha fiducia in sé stessa. Ecco, condensata in una formula efficace, la questione fondamentale. L’italiano – al contrario dell’inglese – è una lingua che non ha fiducia in sé stessa. L’italiano non crede nelle proprie possibilità o nel proprio futuro. È una lingua che non si piace. Non si sente sexy. Non si dà credito. Nutre nei propri confronti una diffidenza viscerale, istintiva, paragonabile solo a quella che gli italiani provano verso la classe politica. E infatti, quando si avverte l’esigenza di conferire a un enunciato o a un discorso un tanto in più di sapore, di efficacia, di espressività, di capacità seduttiva, ecco che si ricorre all’inglese. Lasciamo perdere i casi disonesti (c’è chi usa l’inglese con lo scopo occulto di non farsi capire, o di camuffare o edulcorare verità spiacevoli): il dato preoccupante è l’abuso in buona fede. La tendenza – che a volte si direbbe quasi automatica – di attingere all’inglese ogni volta che si voglia dare alla comunicazione uno smalto, un pigmento, un aroma speciale. Se l’italiano è una lingua eccezionalmente, eccessivamente permeabile, è perché non ripone in sé alcuna speranza o aspettativa.
Per quale motivo? Qui dobbiamo parlarci chiaro. Non diversamente dall’inglese o dal tedesco o dal coreano o di qualunque altra lingua, “l’italiano” è un concetto astratto: in concreto, esistono solo gli esseri umani che parlano. Di conseguenza, ciò di cui stiamo parlando non è un problema linguistico, ma un problema sociale: o meglio, è un problema linguistico, quindi un problema sociale. I linguisti sono i primi a saperlo. Come ha detto Claudio Marazzini – storico della lingua, docente all’università del Piemonte Orientale e presidente dell’Accademia della Crusca – l’eccessiva propensione dell’italiano ai forestierismi dipende dalla fragilità della società italiana. L’Italia è «una nazione che non ha mai avuto confidenza con la propria lingua, in cui il consenso nazionalpopolare non è mai esistito, in cui il sentimento della dignità o potenza della nazione è stato sempre debole, e quando si è sviluppato ha avuto il marchio infamante del fascismo, che resta difficile da cancellare». 

In altri termini: se l’italiano è una lingua che non ha fiducia in sé stessa, è perché la società italiana manca di coesione. Perché in Italia manca – o è scarsissimo – il “capitale sociale”, cioè quella forma di ricchezza che risiede nella qualità delle relazioni interpersonali (al di là ovviamente della cerchia familiare e privata o del gruppo di appartenenza). Non il “capitale umano”, quindi – il livello di istruzione e di preparazione dei singoli – bensì il patrimonio di risorse altrettanto immateriale, ma ancora più impalpabile, che si sedimenta nell’interazione sociale e professionale, nel rapporto con le istituzioni, nell’osservanza delle regole: e che quindi si nutre di senso di reciprocità, di lealtà, di condivisione. Insomma, se il parlante italiano si riempie la bocca di workshop e di location, di car sharing e di default, è per lo stesso motivo in virtù del quale il piccolo imprenditore di successo preferisce condividere la conduzione della propria azienda con un figlio, ancorché privo di qualunque vocazione imprenditoriale (un figlio che a suo tempo o venderà o fallirà), piuttosto che cercare un socio competente: perché ritiene troppo alta la probabilità che un estraneo cerchi di ingannarlo o di approfittarsi di lui, e troppo bassa la probabilità, in caso di contenzioso legale, di ottenere giustizia.
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